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La pelle

La pelle

Ciò che stiamo vedendo non è un’opera moderna, ma una porzione limitata di un quadro di Tiziano, il Supplizio di Marsia. È un particolare, ma se lo isoliamo può apparire ai nostri occhi come un dipinto del nostro tempo. A cosa si deve questa incredibile libertà di segno e di colori, che nulla ha a che fare con la rappresentazione di qualcosa di immediatamente riconoscibile?

Stiamo osservando l’invenzione stilistica di Tiziano su un tema, derivato dalle Metamorfosi di Ovidio, sul quale si erano già cimentati altri grandi artisti come Giulio Romano, circa cinquant’anni prima, nella Stanza delle metamorfosi in Palazzo Te, e prima di lui altri ancora, tra cui lo stesso Raffaello. Tiziano compie un esperimento estremo, che ritroviamo anche in altre sue ultimissime opere: mette in scena la difficoltà del vedere, la fatica cui dobbiamo andare incontro se vogliamo recuperare totalmente il senso di ciò che stiamo guardando.

Il tema dell’opera è di per sé carico di metafore, di simbolicità e di mistero. Ovidio aveva cantato non solo lo svolgimento della gara davanti al re Mida, tra Apollo e Marsia, l’uno con la cetra, il secondo con il flauto (che Aristotele aveva dichiarato essere uno strumento orgiastico), ma anche l’agonia di quest’ultimo, scuoiato vivo dallo stesso Apollo.
La vendetta di Apollo verso la tracotanza del musicista avversario è implacabile e Marsia, che il re Mida, scelto come giudice, ha dichiarato perdente, è condannato all’atroce supplizio: “Perché mi scortichi vivo? Urlava: mi pento, mi pento! Ahimè, non valeva tanto un flauto”.

Raffaello, Apollo e Marsia,1508. Affresco, 120×105 cm.
Musei Vaticani, Roma.

Mentre Giulio Romano (la cui opera è visibile a questo link) affronta il tema con il suo fare spregiudicato e ironico, Tiziano proietta sull’opera il suo ultimo sforzo: il tema lo riguarda da vicino e vedremo perché. Il dipinto, ritrovato nello studio dell’artista alla sua morte, si presenta come una sorta di manifesto universale dell’arte, in quanto indica l’importanza della forma rispetto al contenuto rappresentato.

Tiziano, Apollo e Marsia o La punizione di Marsia, 1570-1576.
Olio su tela, 212×207 cm. Kroměříž, Museo Arcivescovile

Ma Tiziano non si accontenta di ciò, va addirittura oltre: fa coincidere con l’azione rappresentata – lo scuoiamento del corpo – l’atto stesso del dipingere, ovvero il rivelamento di ciò che in termini tecnici si chiama il ductus, la pelle cromatica, costituita dalla fitta trama di macchie di colore che evidenziano la sostanza dei pigmenti, l’andamento delle pennellate, gli interventi quando dolci quando brutali di raschietti o delle dita, che hanno lasciato tracce, solchi e impronte. Se dunque il motivo del dipinto è la raffigurazione atroce della pelle messa in esposizione, la stessa stesura pittorica è come una superficie portata in rilievo e che Tiziano impiega per impedire al nostro sguardo di penetrare, al di là di essa, nello spazio di una scena inguardabile.
Ci è impossibile, infatti, soffermandoci davanti all’opera, di decifrare immediatamente la rappresentazione, tale è l’effetto percettivo della superficie scabrosa della tela sulla quale le figure non si differenziano dallo sfondo, anch’esso trattato con la stessa espressionistica violenza.

Vasari, enormemente colpito dalla veemente pittura mitologica di Tiziano, così lontana dalla tradizione fiorentina, scriveva delle sue pitture: “condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere, e di lontano appariscono perfette”.

Per poter vedere con sufficiente chiarezza ciò che è raffigurato Tiziano obbliga lo spettatore non ad avvicinarsi al dipinto, ma, al contrario, ad allontanarsene e ad arretrare quasi sulla parete opposta della sala.

Il passo avanti e indietro dello spettatore, per guadagnare la visione complessiva e il dettaglio, è stato dunque programmato con questo specifico scopo: solo il moto continuo di allontanamento e avvicinamento all’opera permette di comprenderne apparenza e profondità, forma e contenuto.

Il tema di questo dipinto è, in conclusione, la separazione della pelle dal corpo e, in metafora, la separazione della parte visibile dell’opera d’arte dal suo significato contenutistico. In altre parole, più tecniche, scindendo la forma dal contenuto. Se togliere la pelle a Marsia è compito del dio Apollo, ritenutosi offeso, toglierla all’opera d’arte è compito dello spettatore, che non s’accontenta di una prima visione e vuole vederne la sostanza nascosta, il vero significato segreto.

Nel capolavoro tizianesco compaiono accanto ad Apollo e a Marsia numerose figure. Il dio incoronato di alloro e intento alla crudele tortura ha consegnato la cetra, trasformata in violino dall’invenzione modernista di Tiziano, ad una comparsa. Un pastore impugna un secondo coltello per procedere all’evirazione; un bambino trattiene un cane ringhioso; un cagnetto in primo piano sta lappando il sangue che cola; di lato entra in scena un satiro con una mastella d’acqua per la pulizia finale.

Il dipinto produce un’emozione ulteriore se siamo a conoscenza di un particolare fatto storico appena avvenuto. Tiziano realizza l’opera subito dopo che è giunta a Venezia la notizia dell’uccisione per scorticamento del generale Marcantonio Bragadin, sconfitto dai turchi all’isola di Famagosta.

All’estrema destra è raffigurato il re Mida, incoronato d’oro, ma con orecchie asinine per aver sbagliato il suo giudizio: è un autoritratto dell’artista, sicuro del proprio prestigio ma, nello stesso tempo, immerso tristemente nei suoi pensieri. L’identificazione, certa, di Tiziano come malinconico aiuta a comprendere quanto fosse consapevole della complessità dell’atto creativo e di quanto fosse, anche per lui, difficile se non impossibile definire cosa sia davvero la bellezza.

Mida, infatti, ha sbagliato ad offrire la vittoria ad Apollo, al dio della bellezza e del canto: Tiziano antepone un’altra idea del bello, che non ha più nulla a che fare con il gradevole, rovesciando l’intero sistema di valori estetici su cui posa il fondamento del Rinascimento umanistico e portando alle estreme conseguenze le ricerche che già i pittori manieristi avevano realizzato alterando o disintegrando la forma.

L’artista non si riconosce solo nel giudice disattento, ma, con una proiezione ancor più audace, anche nello stesso Marsia, ed è solo così che ne comprendiamo il dramma esistenziale: chi è Marsia, il selvaggio sileno, che, con le sue note istintive, aveva infranto le regole dell’equilibrio, dell’armonia e della bellezza, se non un adepto di Dioniso, il dio della sregolatezza contraria alla razionalità di Apollo?

Tiziano sceglie il pericolo, il rischio, la sperimentazione. È un uomo del nuovo mondo. Supera persino i raggiungimenti dello stesso manierismo. Si inoltra in un percorso che non era mai stato compiuto da altri. C’erano state invenzioni cromatiche, scenari ambigui, deformazioni figurali. Ancora non si era vista tanta follia. L’arte moderna nasce da questa disintegrazione dei valori apollinei operata dall’ultimo Tiziano.

Per aiutarci a comprenderne le opere conclusive, sconvolte da analoghe sperimentazioni formali, e di cui la Punizione di Marsia è una testimonianza estrema, possiamo farci trasportare dalla lettura di un racconto ottocentesco di Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto: è la storia di un vecchio pittore che morirà per non essere riuscito a rappresentare la bellezza: a forza di intervenire sul suo soggetto, in cerca di perfezione, lo aveva ridotto ad una massa indistinguibile di macchie, mettendo in scena la tragedia del visibile, del rappresentabile e della verità.

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