La locandina della mostra Chroma. Ancient Sculpture in Color, organizzata dal Metropolitan Museum of Art di New York.
La mostra in corso al Metropolitan di New York, Chroma. Ancient Sculpture in Color, sulla scia di quella organizzata nel 2004 dai Musei Vaticani, I colori del bianco, rilancia la questione della colorazione originaria delle sculture greche e romane.
Accanto ai numerosi calchi policromi fatti eseguire nel 2003 dall’archeologo Vinzenz Brinkmann, già curatore della Gliptoteca di Monaco di Baviera, sono presenti numerose opere che avevano fatto parte della collezione di Johann Joachim Winckelmann, cui si deve il rilancio, nel Settecento, degli studi sull’arte classica e nelle quali appaiono ancora evidenti tracce di colore, che lo studioso aveva volutamente ignorato.
“Ripensare” la classicità
Perché questa ennesima mostra è così importante e perché ad essa si è data così poca rilevanza scientifica? La bibliografia sulla policromia dell’arte antica è ancora molto scarsa e soprattutto poco studiata: l’impostazione attuale degli studi sull’arte classica, se ripensata in relazione non solo alle questioni disciplinari, ma anche per le sue dirette implicazioni con la politica e la cultura in generale, non è pronta ad un tale rovesciamento di prospettiva. La classicità, ripensata tenendo conto della rivoluzionaria scoperta di un mondo colorato, e per di più molto provocante, quando per millenni lo si è pensato formalmente bianco, promette di aprire nuove e inaspettate riflessioni.
L’ideologia neoclassica
L’errore interpretativo del colore originale delle sculture classiche inizia nel Settecento alla riscoperta dell’arte greca e romana, dando origine alla moda, allo stile e alla ideologia neoclassica, il cui maggiore responsabile fu, come si sa, Winckelmann. Nei suoi scritti un pensiero apre tuttavia a considerazioni direttamente politiche, ed è ciò che a noi maggiormente interessa: «L’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi». A chi era diretta questa esortazione, se non alla classe politica che stava trasformando l’Europa e l’intero Occidente?
Winckelmann è solo uno dei tanti intellettuali che nel Settecento visitano l’Italia, sentita come culla, con la Grecia, della civiltà occidentale: Venezia, per l’unicità dei suoi ambienti, Firenze, per l’arte rinascimentale, Roma per le chiese e le memorie classiche, Napoli, la città italiana più grande a quel tempo, e la Sicilia, per i templi greci e il suo clima mediterraneo.
La riscoperta dell’antico ebbe conseguenze immediate nella politica europea, perché l’ideale estetico della classicità veniva a coincidere con quello etico dell’animo rivoluzionario francese, che, nell’esaltazione della moralità rigorosa di quella lontana cultura, trovava quelle qualità che così bene l’artista Jacques Louis David sapeva trasferire nei suoi dipinti.
La concezione classica di una corrispondenza aristocratica tra ciò che è bello e ciò che è buono verrà utilizzata, nei primi decenni del secolo scorso, dalle ideologie del fascismo, del nazismo e dello stalinismo, per innalzare austere architetture il cui biancore fosse capace di testimoniare la purezza dell’intento politico.
Questa riflessione ci riporta a Monaco, e precisamente a tre momenti della vita della sua “classica” Gliptoteca: quello in cui inizia a ospitare i calchi policromi della scultura greca e romana studiati da Vinzenz Brinkmann, il momento che la vede ergersi nell’Ottocento a testimonianza tedesca dell’amore per la grecità, e quello in cui farà da scenario ai discorsi di Hitler, nel 1940.
Nell’Europa ottocentesca l’idea del recupero storico ed estetico della grecità aveva preso forma nell’utopia di una nuova possibile Atene da realizzare proprio in quella città di Monaco, che Ludwig I, il grande ammiratore dell’antica Grecia, avrebbe voluto trasformare nella capitale europea della cultura. Assieme all’architetto Leo von Klenze aveva progettato l’insieme delle architetture di Königsplatz, la piazza reale, come una sintesi dei tre stili greci: la porta d’ingresso della città, ispirata ai Propilei di Atene, in stile dorico, la Gliptoteca in quello ionico e l’Antikensammlungen in quello corinzio.
E non è dunque a caso se Hitler, memore dell’esortazione di Winckelmann, abbia voluto usare, per i suoi comizi oceanici, proprio Königsplatz, la sua Acropoli tedesca, delimitata dai tre edifici neoclassici, come garanzia della identificazione tra bellezza estetica dei contenitori e bontà etica dei suoi discorsi e dei suoi programmi politici.
Ma il dittatore avrebbe potuto tenere le sue orazioni nella “classica” piazza di Monaco se fosse stato circondato dalle architetture di von Klenze dipinte con gli sgargianti colori dei modelli originari a cui ci si era ispirato e che gli studi di Brinkmann hanno messo in luce? Quale diverso discorso sarebbe stato pronunciato avendo avuto come sfondo una scenografia quasi disneyana?
La censura del colore
Un’ultima riflessione riguarda le ragioni della censura del colore delle sculture classiche in epoca rinascimentale.
La prima grande scoperta della scultura greca avviene nel Rinascimento e precisamente nel Cinquecento. Tutti ricordano l’evento del ritrovamento del Laocoonte, non troppo distante dalla Domus Aurea di Nerone: emerso dalla terra dei secoli conservava ancora tracce di policromia, che Michelangelo e i presenti non vollero notare (proprio quel Laocoonte, sottratto all’Italia dalle spoliazioni napoleoniche, diverrà una delle principali fonti di ispirazione del neoclassicismo in Francia). Tutti già allora sapevano che la scultura antica era colorata, avendo letto ciò che riferivano, tra gli altri, Platone o Plinio, che avevano rivelato la ragione della coloritura delle statue: dovevano apparire vive, e dunque simili ai mortali.
Dunque, ciò che noi abbiamo ammirato per millenni come figure idealizzate nelle decorazioni dei templi o come singole sculture va oggi ristudiato in riferimento a un realismo che attiene alla quotidianità della vita comune, della vita sociale e umana prima che divina.
La riscoperta dello sguardo
Ridando colore a tutte quelle immagini e rimettendo le pupille negli occhi ciechi diamo inizio ad una nuova narrazione antiretorica. L’ateniese, che raggiungeva l’acropoli durante le processioni panatenee si confrontava dunque con eroi e dei simili a lui, quasi vivi, essendo dotati di occhi che sembravano guardare. La prima inquietante esperienza che il visitatore può fare visitando una simile mostra, ma anche tutti quei musei in cui ormai, più o meno timidamente, compaiono ipotesi di restituzioni cromatiche, è di scoprire che tutte le figure posseggono quello sguardo che per millenni ci era stato nascosto e che era stato tuttavia narrato dalle fonti antiche. Secondo Diodoro, Dedalo, il primo mitico scultore aveva fatto sì che: «simili agli esseri umani, le sue statue guardavano e camminavano, per primo infatti avendole fornite di occhi». Il dono della vita alla statua, dunque, è ottenuto mediante l’attivazione dello sguardo, permettendole di mescolarsi tra gli umani e interagire con loro. Riflettere dunque su questo nuovo scenario pone non solo lo spettatore, ma anche lo studioso, di fronte a implicazioni non solo culturali ma anche politiche. Rileggere ancora una volta l’antico permette, infatti, di aprire una nuova via d’accesso al presente.
Per approfondire
Link esterni
Il professor Ernesto L. Francalanci è l’autore del corso dell’Arte