Arte e attualità
L’arte di fronte alla guerra

L’arte di fronte alla guerra

La protesta dell’artista Vadim Zakharov davanti al padiglione della Russia presso la Biennale di Venezia 2022.

Nell’affrontare questo argomento non dobbiamo dimenticare che stiamo vivendo in quella che è stata giustamente definita, anche dal Papa, la terza guerra mondiale.  Non solo la politica, dal momento che una guerra è la dimostrazione palese del suo fallimento, ma anche la società, l’economia, la cultura e l’arte ne risultano sconvolte.

Che cosa fa l’arte: due esempi recenti

Prendiamo due esempi, ambedue desunti da quanto avvenuto a Venezia nel corso della Biennale internazionale del 2022.

Il primo riguarda la decisione degli artisti russi di ritirarsi dall’Esposizione, il secondo concerne un’opera sintomatica dell’artista Anish Kapoor, un cannone che spara proiettili di sangue, ospitata all’interno delle Gallerie dell’Accademia di Belle Arti.

La scelta operata dagli artisti russi, che è stata accettata acriticamente dalla Biennale, assume una enorme importanza non solo politica, ma anche etica e culturale, tuttavia quasi del tutto sottaciuta dai media, e la Biennale ha perso la sua grande occasione per esprimere, con il suo peso internazionale, una scelta di campo: non una scelta ideologica in favore di Putin o di Zelensky, ma riguardo la guerra in sé, che cambia l’orizzonte degli eventi in cui l’arte possiede una sua immediata responsabilità.

Il ritiro degli artisti russi, motivato dal dissenso nei riguardi dell’aggressione del loro Paese all’Ucraina, ha posto un problema di enorme gravità, cui la grande esposizione universale non ha voluto dare risposta: nel tempo della guerra è forse ancora possibile “fare arte”?

Per paradosso, la principale funzione dell’arte dovrebbe essere quella di “fare guerra”, poiché essa – soprattutto nella sua caratteristica di avanguardia – dovrebbe essere sempre vigilante e critica dello “stato delle cose”, abbattendo la tradizione quando questa non appare più capace di concorrere a trasformare il mondo.

La scelta operata dagli artisti russi non ha avuto conseguenze, ma l’azione ha riproposto, una volta ancora, l’antica domanda che già si poneva il filosofo tedesco Martin Heidegger: perché i poeti non riescono a cambiare il mondo?*

La responsabilità è nostra, della nostra malattia politica, che non pone al centro di ogni decisione che riguarda le sorti del mondo la centralità della cultura. Qual è, dunque, il grido che cogliamo da parte della società “civile” e quale la risposta da parte dell’arte?

La funzione attuale dell’arte in un momento così tragico non può che essere quella di proporre la pace: una funzione critica e quasi “politica” quindi, perché la grande narrazione simbolica, dal cinema alla poesia, dal romanzo alla musica, possa aiu­tarci a leggere la complessità della realtà e, nel fatto specifico, la guerra russo-ucraina che coinvolge in maniera diretta o indiretta tutti i Paesi del mondo. Il gesto degli artisti russi potrebbe connotarsi dunque come una sorta di operazione critica che ha utilizzato l’arte contro la guerra dichiarandole guerra.

Il secondo esempio, che attiene alla questione del rapporto tra arte e guerra, può essere offerto da un’opera anomala nella produzione tradizionale dell’artista indo-inglese Anish Kapoor (segui il link per visualizzarla), famoso per le sue sculture enigmatiche, geometriche o biomorfe, ricoperte di colori puri, chiaro richiamo all’immaginario cromatico indiano, e, soprattutto, per aver utilizzato un pigmento di recente invenzione, il cosiddetto Vantablack, che assorbe quasi completamente la luce riflessa producendo degli spazi volumetrici illusivi**

L’opera in questione è un cannone (Shooting into the corner, 2008-2009) che spara proiettili di “sangue” all’interno di un vasto ambiente delle Gallerie dell’Accademia (segui il link per visualizzare l’opera). Nessuna relazione diretta con gli eventi dell’oggi, ma, proprio per ciò, maggiormente simbolico. Il proiettile di sangue inonda anche lo spazio psichico dello spettatore e lo mette ancora più a rischio se si riflette sul fatto che si tratta di un’arma artistica che si rivolge contro la sacralità del suo contenitore d’arte.

L’eco di questo sparo echeggia tra le tele di Bellini, di Giorgione, di Tiziano. Ovvero di un’arte che parla del suo presente e del nostro, del passato e del presente. Un’arte che è l’antagonista destinata del male, della violenza, della paura.

Molti artisti dell’arte moderna e contemporanea hanno realizzato immagini di armi, sia in pittura sia in scultura. La Pop art americana le risolve ludicamente: Rosenquist o Lichtenstein; in Italia un artista come Pino Pascali le concettualizza; Kapoor con la sua installazione nel cuore del museo permette di riaprire fondamentali interrogativi, mentre Antonio Riello le trasforma in immagini sarcastiche: è possibile giocare alla guerra? Può l’arte narrare l’orrore? L’artista, in sostanza, riesce a cambiare il mondo?

Giocare alla guerra? 

A questa domanda risponde l’infinita serie di opere d’arte che, nel corso dei millenni, hanno rappresentato la guerra nel suo aspetto trionfante, visto dalla parte del vincitore, che non ha occhi per i caduti sul campo, per gli infiniti dolori dei sopravvissuti, per la distruzione di città, monumenti, case e per le lacrime degli uomini e delle cose.

Per limitarci al nostro tempo, come non aver presente le ludiche opere della Pop art, come la gigantesca tela di Rosenquist, F-111 (segui il link per visualizzare l’opera), dal nome del famigerato cacciabombardiere americano impiegato nella guerra del Vietnam, che l’artista inserisce in un universo frammentato di immagini quotidiane; il combattimento aereo raffigurato da Roy Lichtenstein (segui il link per visualizzare l’opera) o, in Italia, il cannone di legno di Pino Pascali (segui il link per visualizzare l’opera) o ancora, più recentemente, le sculture sarcastiche di Antonio Riello.

Può l’arte narrare l’orrore?

La seconda questione ci immerge nella narrazione del lutto, amara prerogativa dei vinti e, nello stesso tempo, nella denuncia dell’aggressione e nel rifiuto della violenza. Un grido di sofferenza sostituisce quello trionfale dei vincitori e nessuna rappresentazione, per quanto realistica, può riuscire a farci condividere quella esperienza estrema sul confine della vita. Le voci di questa denuncia si trasformano in urla, e nell’urlo non vi è armonia, melodia e canto: l’urlo riconduce l’umanità alla sua natura animale.

Vediamo due opere significative: la performance eseguita nel 1997 dall’artista serba Marina Abramović, intitolata Balkan Baroque (segui il link per visualizzare l’opera), durante la quale l’artista, per quattro giorni, in un ambiente sotterraneo della Biennale di Venezia, puliva delle ossa da brandelli di carne marcescente, indicando con ciò che, nel nostro tempo morente, tutti dobbiamo fare i conti con la presenza costante di una guerra.

La seconda opera è una immagine fotografica dell’artista Pavel Wolberg. Racconta dell’esodo forzato dei palestinesi dalle loro terre. Una coppia di abitanti, preceduta da un carro armato invasore, si avviano verso un futuro sconosciuto, portando con sé le loro povere cose e un modellino di una moschea.

Pavel Wolberg, Jenin, 2002. Una foto del visual artist israeliano presentata alla Biennale di Venezia del 2007 (foto: E.L. Francalanci).

L’artista può cambiare il mondo? 

Il terzo interrogativo concerne la responsabilità dell’arte non solo nei riguardi della violenza umana, ma anche verso un altro nemico sottaciuto, e altrettanto pericoloso: la superficialità della vita estetica che ha sostituito per sempre l’etica di un buon comportamento sociale. Infatti, l’arte, neppure nelle sue forme più rivoluzionarie e d’avanguardia è riuscita a cambiare il mondo, che è stato invece messo in forma dalla fantasmagorica bellezza delle merci, grazie anche a precise regie ideologiche e politiche. Sappiamo ormai, per esempio, che l’invasione artistica dell’Europa negli anni Sessanta del Novecento da parte della Pop art americana è stata “programmata” per documentare e diffondere la supremazia non solo politica, ma anche estetica del capitalismo, capace di produrre un orizzonte di bellezza e di benessere di fronte alla povertà economica e formale della proposta comunista, di cui si temeva l’avanzata. Anche questa è stata, dunque, una guerra in cui l’arte ha sì giocato un ruolo fondamentale, ma dalla parte del vincitore.

Digitalizzazione e finanza: i nuovi altari

Nei tempi più recenti stiamo assistendo a una nuova e diretta responsabilità dell’arte che concerne la guerra informatica.  È una guerra senza bombe e senza sangue, ma con i suoi morti e i suoi suicidi (ricorrono tra poco dieci anni dalla morte del geniale informatico Aaron Swartz, fautore di una conoscenza di libero accesso per tutti).

Il finanscape (da financial landscape), ovvero l’orizzonte tecnico degli eventi finanziari, ha valicato quelli geografici e politici, diventando un mostro continuamente in guerra, il vero Leviatano – incarnazione del caos – profetizzato dal filosofo Hobbes.

Il fenomeno recente dei cosiddetti NFT (Non-fungible token) ne è testimone. Artisti famosi come Hirst, Koon, Murakami e Marina Abramović stanno trasferendo nel metaverso*** alcune loro opere: hanno deciso di distruggere il corrispondente di alcune opere fisiche in file digitali. Con grande teatralità pubblicitaria una società di blockchain (“blocchi concatenati” di dati immutabili condivisi) ha acquistato un’opera del famoso street artist Bansky e l’ha bruciata dopo averla digitalizzata, convertendola in NFT.  La smaterializzazione dell’arte procede parallelamente alla irreversibile trasformazione della realtà come siamo ancora abituati a percepire in un mondo governato dalla tecnica. È in atto una vera e propria guerra contro la fisicità della nostra esperienza corporea, tattile e nervosa.

Un’immagine dal videogame Minecraft
(foto: Mike Prosser Licenza CC BY 2.0)

Non dobbiamo dimenticare, infine, un aspetto altrettanto grave di conseguenze: i contenuti di guerra e comunque conflittuali presenti nei videogiochi, l’ultimo campo di addestramento del bambino ai combattimenti della vita secondo una pedagogia paradossale grazie a cui la sua sopravvivenza futura è legata al fatto di essersi preparato alla guerra. Videogiochi come Asteroids, Minecraft e diversi altri sono addirittura entrati nella collezione del MoMa di New York grazie alla curatrice Paola Antonelli. E
a gennaio 2023 alla Venaria Reale ci sarà una grande mostra sui videogiochi come “decima forma d’arte”.

In conclusione, potremmo fare nostra la posizione esemplare di Albert Einstein e Sigmund Freud: non c’è alcuna possibilità di pace nel mondo né democrazia se non si offrirà cultura**** e quindi piena consapevolezza dei propri diritti a ogni singolo cittadino. Qualsiasi sia la forma del Potere, non potremo mai combatterlo se non entreremo nella riflessione definitivamente etica e politica della guerra quotidiana tra stanziale e nomade, tra oppressore e oppresso, tra dominatore e dominato, tra padrone e servo, tra capo e sottomesso. L’arte, che di questa realtà sa cogliere gli aspetti più umani, deve farsi nuovamente Guernica per risvegliare la nostra residuale coscienza.

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* Martin Heidegger, Perché i poeti? 1946; in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, 1968, pp. 246-297. In questa famosa conferenza, attraverso la poesia di Hölderlin, H. si interroga sul senso dell’essere (“il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora [heimat] abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa casa”). La poesia dell’arte può cambiare il mondo alla condizione di “essere una poesia pensante”, un’arte-avanguardia che si fa carico del mondo: a noi spetta il compito di imparare a udire ciò che dicono i poeti, e ciò che ci comunicano gli artisti, ciò che le note echeggiano dal profondo. Per fare un esempio concreto, pensiamo alla West Eastern Divan Orchestra, multietnica, multireligiosa, multiculturale, fondata e diretta da Daniel Barenboim, argentino, con genitori russi di origine ebraiche e con cittadinanza israeliana, spagnola e palestinese.

** La scultura Madonna, per esempio, che si presenta come un piatto bidimensionale, è costituita da un “corpo cavo”, nel quale la luce viene assorbita e riflessa dalle pareti stesse grazie alle proprietà di questo particolare colore. La luce che vi penetra, ma che non viene restituita, produce “assenza di informazione” e dunque un mistero. Lo spettatore per riuscire a comprendere quale sia la materia e la tecnica che determinano la percezione instabile e indefinibile dell’opera è portato ad avvicinarvisi e a toccarla. Kapoor mette in scena una stazione di fede: non si deve cercare di oltrepassare la superficie dell’opera, perché essa è virtuale e virtuosa: rappresenta la condizione di verginità della Madonna, di cui questa semisfera costituisce il sacro e inconoscibile utero. https://anishkapoor.com/65/madonna

*** Ambiente virtuale condiviso attraverso internet. Il termine metaverso* è stato coniato dallo scrittore di fantascienza Neal Stephenson per definire nel suo romanzo (Snowcrash, 1992) lo spazio virtuale tridimensionale all’interno del quale i suoi personaggi interagiscono e vivono nuove vite “elettroniche”.

**** “Qualsiasi cosa che alimenti lo sviluppo della cultura lavora al contempo contro la guerra.” In Perché la guerra? titolo della famosa corrispondenza tra Einstein e Freud avvenuta nel 1932.

Il professor Ernesto L. Francalanci è l’autore del corso dell’Arte

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