WHY FUTURE DOESN’T NEED US?
Così la prestigiosa rivista Wired, nel lontano 2000, intitolava una monografia sostenendo che tra non molto potrebbe determinarsi la scomparsa del genere umano, sostituito da intelligenze artificiali.*
L’abbraccio fatale di tecniche robotiche, biogenetiche, nanotecnologiche e informatiche ha infatti prodotto una dimensione nella quale l’essere umano può essere considerato come un oggetto di fabbricazione, superabile, secondo la teoria dell’evoluzione delle specie, da altre forme di vita più forti e più competitive.
L’idea della mutazione irreversibile del genere umano, della sua cultura e della stessa realtà era già argomento di riflessione negli anni Sessanta**, e dalla fine degli anni Ottanta artisti come Stelarc, Antúnez o Orlan, con le loro performance estreme, ne sono stati gli interpreti più fastidiosi e significativi.
Proprio questi artisti compaiono a più riprese, anche se sotto altre spoglie, in Crimes of the Future, l’ultimo film di David Cronenberg. Sono i simboli di una mutazione dell’intera realtà e non solo degli esseri umani.
La dimensione del reale, sembra volerci dire il regista, è sempre più minacciata dal superamento postmoderno delle differenze tra essenza e apparenza, tra vero e falso, tra realtà e simulazione, tra autentico e inautentico, tra originale e imitazione, tra unicità e copia, tra umano e artificiale: categorie di pensiero che per tutta l’epoca moderna erano state ritenute distinte e contrapposte.
Ma addentriamoci in questa conturbante opera di Cronenberg per cercare di comprendere meglio quanto il regista vuole trasmetterci.
NUOVI CORPI, NUOVE ARTI?
La prima scena del film si apre sul relitto di una nave affondata. È la fine di un’epoca, di un tempo. Un bambino sta versando con un cucchiaio l’acqua del mare tra i sassi della riva. Rimane un’azione inspiegabile se non ci ricordiamo del racconto di Sant’Agostino (Lettera apocrifa a Cirillo), redarguito da Dio mentre compie la stessa operazione, poiché è più semplice travasare tutto il mare in una buca che cercare di capire ciò che è oltre l’umano. Oltre l’umano è oggi, letteralmente il post-umano, che Cronenberg cerca ancora una volta, dopo tanti film dello stesso tenore***, di mostrarci, sfruttando in maniera diretta la riflessione dell’arte contemporanea (e non senza una certa dose di sarcasmo).
Incontriamo infatti nel film la performance di un artista che, sulla scia di Stelarc, tenta di superare i confini fisici del corpo sperimentando sistemi coi quali estendere le potenzialità della propria biologia. Nella performance riprodotta, così come nella ricerca di Stelarc, vediamo concretizzarsi una delle invenzioni più estreme della fiction, quel connubio tra organico e inorganico (profetizzato molti anni prima dalla letteratura gotica) e a cui, nel 1960, due ricercatori, Manfred Clynes e Nathan Kline, impegnati a studiare l’adattamento umano nello spazio extraterrestre, avevano dato il nome di cyborg.
Stelarc per spiegare la dimensione culturale delle sue performance parla, per l’appunto, di una sorta di condizione post-storica, trans-umana: il tentativo di superare, in ogni direzione, quelli che sono i limiti fisici del corpo. Ingerisce un micro robot che si muove all’interno del suo corpo, filmandolo. Si innesta altri organi, un terzo orecchio, connette neuroni a bit e ad atomi… Ma, come osserva alla fine della performance l’alter ego del regista, un magnifico e mortifero Viggo Mortensen, tutto questo è solo per bellezza, non serve proprio a nulla.
Un’altra artista “ultra-umana” citata è Orlan e con lei le sue performance di trasformazione del proprio aspetto senza anestesia e recitando poesie, mentre il chirurgo disegna con il bisturi un volto sempre diverso. Nel film ha l’aspetto di un’entusiasta alla continua ricerca di una nuova stupefacente estetica.
È un corpo privo ormai di volontà e di libertà: dipende da macchine, da mobili e oggetti chirurgici che richiamano molto da vicino quelli immaginati da un artista come Hans Ruedi Giger (il creatore del mostro del film Alien), e che a loro volta si trasformano in sculture dotate di vita autonoma. E possiamo rintracciare anche le macchine robotiche progettate da Marcel.lí Antúnez Roca, che sembrano governate da una intelligenza autonoma.
Un vero mutante è invece il bambino che giocava in riva al mare: già corpo post biologico, si alimenta di plastica, di materiali artificiali, inorganici. Così come all’interno del corpo del protagonista, artista performer, nel cui corpo “spontaneamente” crescono e si modificano “neo organi” sconosciuti, che dovranno essere registrati in appositi uffici come opere d’arte.
BODY IS REALITY
La mutazione, sia essa “naturale” e dolorosa, come per il protagonista, od ottenuta artificialmente su corpi ormai anestetizzati in operazioni pubbliche cui si sottopongono gli altri artisti, viene mostrata e celebrata con un rito e come un happening. Tutto si trasferisce nello spettacolo. La mutazione è lo spettacolo e, per essere precisi, è uno spettacolo di tipo carnale («La chirurgia è il nuovo sesso», afferma rapita la burocrate dell’ufficio di registrazione dei nuovi organi).
E lo spettacolo finale, Body is reality, è la chiave per comprendere l’ambiguo messaggio di Cronenberg: il corpo è la nuova realtà da affrontare, ma questa realtà post-umana è già in atto? È quanto vorrebbe dimostrare alla manifestazione un gruppo di evoluzionisti radicali.
Ma allora altre filosofie vanno cercate e impiegate per decifrarla. Altre frontiere (artistiche?) stanno infatti per essere superate, come decorare gli stessi organi interni trasformandoli in preziose opere da esposizione (idea già nel romanzo dello scrittore americano J.G. Ballard La mostra delle atrocità). Fino a dove mai si potrà spingere quindi questa ricerca? Per esempio, fino a decorare ed esporre gli organi di un bambino appena morto?
Altri dubbi vengono seminati dal regista. Come si può definire opera d’arte – si chiede un personaggio del film – «Una crescita tumorale… Dove è la elaborazione emotiva, la comprensione filosofica, che sono alla base dell’arte?».
Siamo quindi alla fine dell’arte, o, per lo meno, di quella attuale?
Vediamo il protagonista interrogarsi per cercare di comprendere il suo ruolo come mutante: forse è solo quello di prepararsi per la grande mostra della bellezza interiore. Ma l’interiore non è più quello spirituale, bensì viene a coincidere con l’interno organico, fisico e ormai artificiale del corpo. Per arrivare a cogliere la bellezza interiore quindi non serve più la filosofia o l’analisi, basta aprire una cerniera sul petto e godere della vista dei nuovi organi interni.
Il protagonista alla fine forse ha compreso: lui è il prototipo di un organismo post-biologico, cui è pervenuto per via “naturale”.
In altre parole, è la natura umana stessa che ha creato la nuova realtà artificiale rendendo il corpo obsoleto (sono parole dello stesso Stelarc), e forse solo creature inedite, la cui alimentazione è a base di materiali plastici, potranno vivere in pace e armonia con il mondo artificiale nato dalla tecnica. Così anche il protagonista sembra ritrovarsi d’accordo con quanto sostengono gli evoluzionisti radicali, braccati dalla polizia governativa che intende invece mantenere segreta questa “deviazione dalla natura umana”.
Insomma, il possibile futuro descritto dal film di Cronenberg è stato già annunciato non solo dalla fantascienza e dalla scienza, ma anche da quegli stessi artisti che hanno fatto del proprio corpo un campo di continua sperimentazione. All’arte resta il compito di farci riflettere sulla realtà più nascosta e forse di pre-figurare il futuro. All’artista quello di trasformarsi in chirurgo, affondando le sue mani e i suoi strumenti nel corpo della realtà mutante per individuarvi l’alieno. Agli esseri umani, secondo il regista non si può che augurare ancora l’esperienza del sorriso e del dolore, unica prova della loro realtà biologica, e soprattutto la possibilità di sognare, preclusa, al momento, al corpo artificiale.
* La copertina del numero di aprile 2000 dell’influente rivista statunitense Wired, uscita ancora oggi ricordata per l’articolo Why the Future Doesn’t Need Us, a firma di Bill Joy, co-fondatore di Sun Microsystems.
** Vedi per esempio Gilles Deleuze e il suo La società dello spettacolo, nonché il seguente I commentari della società dello spettacolo, e Jean-François Lyotard, il cui saggio La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, è degli anni ’70. Ma ancora prima, intellettuali come Walter Benjamin, agli inizi del secolo scorso, e filosofi come Martin Heidegger, avevano preannunciato la crisi della modernità, il sopraggiungere del dominio della tecnica e l’inizio di una gravissima mutazione culturale, tecnologica e sociale.
*** Altri film di David Cronenberg (1943) che affrontano la condizione post-moderna e già post-umana sono Videodrome (1983), Brood-La covata malefica (1979), Crash (1996) e soprattutto eXistenz (1999).
Per approfondire
Link esterni
Il professor Ernesto L. Francalanci è l’autore del corso dell’Arte