William Kentridge, Triumphs & Laments: a project for Rome, 21 aprile 2016, a cura di Kristin Jones
Photo: Sebastiano Luciano – Courtesy: Lia Rumma Gallery, Milano/Napoli e Associazione Tevereterno
L’arte è politica: nasce per essere esposta al mondo, messa in dialogo con la società alla quale si rivolge e nella quale è stata creata. Partendo da questo assunto fondamentale, il post che segue e i due successivi provano a raccontare le relazioni tra arte contemporanea e ideologie, attraverso capolavori di artisti di geografie culturali differenti che con le immagini lottano, educano, raccontano e riflettono sulla “cosa pubblica”. Nel bene e nel male. Schierandosi da una parte, o documentando quanto avviene, tra rivoluzioni e proclami, manifesti e misfatti.
Una processione di icone appartenenti alla storia di Roma si snoda lungo le sponde del fiume Tevere: davanti ai nostri occhi, sfilano la Lupa Capitolina, soldati trionfanti e popoli sottomessi, stemmi e bandiere: è la storia, per simboli, della capitale del nostro Paese, raccontata da uno dei più grandi artisti contemporanei, William Kentridge (Johannesburg, 1955), in un fregio realizzato nel 2016, lungo 550 metri, composto da 90 icone.
La più grande opera d’arte contemporanea che Roma abbia mai avuto. L’artista, di origine sudafricana ha spesso analizzato con la sua opera il rapporto tra il potere e l’oppressione: quale città migliore se non Roma, per riflettere su queste tematiche? Ma vi è dell’altro: il fregio infatti, essendo un’opera d’arte pubblica, è affidato dall’artista alle mani dei visitatori e degli abitanti di Roma, ai quali va la responsabilità di rispettarlo nel tempo. Ma prima o poi il fregio sarà destinato a scomparire: starà alla memoria di chi lo ha visto narrarlo ai propri figli, per ricordare la storia del nostro Paese, i suoi trionfi e i suoi lamenti.
Roma è da sempre uno dei luoghi prediletti dagli artisti moderni e contemporanei per riflettere sulla storia del nostro Paese, anche attraverso una indagine sui suoi simboli, nel bene e nel male.
Franco Angeli (Roma, 1935-1988) è stato uno dei più importanti protagonisti della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, un vero e proprio movimento di artisti esponenti della pop art italiana che vogliono riflettere sul significato dei miti e dei simboli, delle icone e dei rituali del nostro Paese, da Michelangelo e la Cappella Sistina, ai loghi e messaggi delle dittature. È su questi ultimi che si concentra Franco Angeli: nell’opera Cimitero infatti, troviamo la croce uncinata nazista e tantissime altre croci, a indicare la morte di milioni di uomini in guerra e nei campi di sterminio. Domina su tutti una grande aquila, nera: simbolo della Germania nazista con la quale l’Italia stringeva, negli anni del fascismo, un accordo mortale.
La stessa aquila viene dipinta “a testa in giù” da Georg Baselitz (Kamenz, 1938): artista tedesco che con Anselm Kiefer, di cui abbiamo già parlato, e Gerhard Richter, di cui a breve parleremo, è stato chiamato “Nuovo Selvaggio”: con questo termine infatti, si definiscono gli artisti tedeschi che a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno voluto ripercorrere la storia recente del loro Paese, riflettendo sul perché del nazismo e sull’uso strumentale che esso fece dei simboli e della cultura tedeschi. Baselitz sceglie di dipingere con le dita e al contrario: lo fa perché vuole riflettere sulla validità della pittura anche nell’epoca contemporanea, riscattandone il significato. Nelle sue opere le aquile, viste a testa in giù ci costringono a riflettere su come i simboli, nelle mani della dittatura, diventino messaggi potenti, di indottrinamento e assoggettamento dei popoli.
Anche Gerhard Richter (Dresda, 1932), nelle opere degli anni Sessanta, riproduce pittoricamente le immagini della Germania durante la dittatura e fino alla Seconda guerra mondiale, ma lo fa con un’altra tecnica rispetto a quella di Baselitz: dipinge con i grigi e i neri, sfocando le immagini. In questo modo, come nel dipinto dei “Bombardieri” (visibile a questo link), Richter racconta una storia drammatica e recente: la vediamo già sfuocata, lontana, eppure ci sforziamo di ricostruirla nella sua nitida verità, nelle sue cause e conseguenze. Lo sforzo cui Richter ci chiama è un compito etico, oltre che visuale. A noi la scelta di voler ricordare, o di dimenticare.
Che cosa è il fascismo è stata una performance realizzata dall’artista italiano Fabio Mauri (1926-2009) con lo scopo di ricordare le violenze del potere nazista e fascista che sfruttavano anche le spettacolari e retoriche manifestazioni di regime per ribadire la normalità delle discriminazioni razziali. Nello specifico, questa performance rievoca la visita di Hitler a Firenze nel 1938, in occasione della quale la squadra di giovani fascisti di Bologna, dove erano presenti anche i giovanissimi Fabio Mauri e Pier Paolo Pasolini, aveva svolto i cosiddetti Ludi Juveniles: saggi ginnici, incontri di scherma, esibizioni di pattinaggio, sbandieramenti, inni e dibattiti individuali intenti a celebrare il regime.
Nella performance del 1971, eseguita dagli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, Mauri rievoca così quanto era accaduto. Tutto si svolge su un tappeto rettangolare con il simbolo della svastica posto al centro del tappeto rosso, mentre il pubblico assiste allo spettacolo, discriminato in base alla propria provenienza “etnica”: le tribune nere, grandi e spaziose, sono per gli “italiani” e i “tedeschi”, le due piccole tribune con la stella di Davide sono per il pubblico “ebreo”. La performance allora è un documento ricostruito di cosa accadeva, di come giovani ragazzi venivano educati all’odio, mentre inconsapevoli e indottrinati inneggiavano, tra danzi e prove ginniche, agli stessi artefici del male e della violenza.
Quarant’anni dopo la performance di Mauri, un artista padovano, Maurizio Cattelan (1960), oggi noto a livello internazionale per le sue opere di grande provocazione e successo, anche economico, crea una scultura che desta scandalo e divide il pubblico: si intitola Him ed è un piccolo Hitler in ginocchio, che con lo sguardo contrito chiede al Cielo, e a tutti noi, perdono per tutte le efferatezze compiute.
Certamente ci spiazza: lo guardiamo e sentimenti avversi ci invadono, tra il disgusto e il dubbio, l’orrore rievocato e la rabbia mai soppressa. Eppure, il perdono fa parte della nostra educazione cristiana, pare dirci Cattelan.
Come reagiamo, allora, davanti a questa opera?
Il pubblico di Varsavia, dove Him fu esposto nel 2012, proprio davanti all’ingresso del ghetto ebraico della città, accolse senza entusiasmi, con grandi polemiche o apprezzò poco: chi subì la dittatura, di ironia ne vuole, tuttora, fare ben poca. Il mercato dell’arte reagì invece con un trionfo economico: un esemplare di questa scultura, nel 2016, è stato venduto all’asta per circa 15 milioni di euro.
Certamente l’opera di Cattelan è un lavoro politico, nel senso più profondo del termine: mette a nudo la nostra coscienza, il senso che abbiamo della storia e il valore che diamo all’opera come indagine etica e domanda collettiva, senza deroghe e senza ipocrisie.
Ilaria Bignotti è una degli specialisti che hanno collaborato al corso di Storia dell’arte del professor Ernesto L. Francalanci.
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