Artemisia e le altre
Properzia de’ Rossi: le scandalose imprese di una “scultora”

Properzia de’ Rossi: le scandalose imprese di una “scultora”

Louis Ducis, Properzia De’ Rossi termina il suo bassorilievo, 1822. Olio su tela, 81×65 cm. Museo del Louvre, Parigi.

Di Properzia de’ Rossi (1490-1530), scultrice bolognese, si sa davvero ben poco: si racconta fosse bellissima, avesse una voce angelica e suonasse magnificamente la mandola e il liuto. Tra le pagine di un trattato rinascimentale (Le vite dei più eccellenti pittori, scultori, e architettori di Giorgio Vasari), in cui sono raccolte le biografie dei più grandi artisti di ogni tempo – da Giotto a Michelangelo – per la prima volta compare anche il nome di una donna: una “scultora”. L’ingegno di Properzia viene definito “capriccioso e destrissimo”, quasi a voler sottolineare il carattere umorale – tipicamente femminile, secondo la visione del tempo – della talentuosa scultrice.

Ma Vasari non si limita a questo; si spinge oltre, affermando che le donne “mai come nella nostra epoca hanno saputo affermare il loro valore, in tutte quelle discipline nelle quali si sono misurate. E non si sono vergognate, quasi per strappare a noi uomini il vanto della superiorità, di mettere le loro tenere e candide mani tra la ruvidezza dei marmi e l’asprezza del ferro”. Difficile capire se lo scrittore toscano apprezzi davvero questa intromissione femminile nel campo delle arti plastiche o se la sua, in realtà, sia una critica – nemmeno troppo velata – nei confronti di quelle donne che non si accontentano di stare al loro posto, a coltivare quelle virtù familiari e domestiche celebrate da Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano

Un’artista raffinata

Ritratto di Properzia de’ Rossi.

Numerose cronache dell’epoca – erano i primi decenni del Cinquecento – raccontano che le opere di Properzia de’ Rossi destarono in tutti grande meraviglia, per la sua maestria e la raffinatezza della loro esecuzione: si narra che scolpì le figure di undici sante e di altrettanti santi su una serie di noccioli di pesca, incastonati in una maestosa aquila in filigrana d’argento, simbolo araldico della famiglia Grassi di Bologna.  Il suo comportamento e i suoi costumi, invece, le attirarono spesso le critiche feroci dei benpensanti: più di una volta, infatti, fu denunciata per piccoli furti e altre intemperanze (baruffe di strada degne di Caravaggio!). Il catalogo delle opere di Properzia de’ Rossi è davvero esiguo: una formella di marmo, custodita nel Museo del Duomo di Bologna, è la sola produzione che le viene unanimemente attribuita.
Tutto il resto è leggenda.

La storia della formella

Altrettanto leggendaria è la vicenda che ruota intorno alla formella, intitolata Giuseppe e la moglie di Putifarre: si racconta che Properzia, forte della fama derivata dai minuscoli gioielli che aveva scolpito, aveva avuto il coraggio di candidarsi per lavorare nel più prestigioso cantiere bolognese, in cui si progettava la decorazione della facciata della basilica di San Petronio.

Giuseppe e la moglie di Putifarre, 1525-26. Formella in marmo, 54×58 cm. Museo dell’Opera del Duomo di San Petronio, Bologna.

Ebbene, sembra che in quel periodo la scultrice fosse perdutamente innamorata di un bel giovane, un noto uomo di legge, tale Antonio Galeazzo Malvasia, il quale però non ricambiava affatto il suo sentimento. Animata, allora, dalla rabbia e dalla delusione, Properzia si mise a scolpire nel marmo il celebre episodio tratto dalla Bibbia: la moglie di Putifarre, dignitario del Faraone, si era invaghita di Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe venduto come schiavo dai suoi fratelli gelosi; la donna – di nome Saffira –, affranta per essere stata più volte rifiutata dal giovane, in un ultimo disperato tentativo di seduzione gli strappa la veste di dosso, per poi accusarlo, davanti al marito, di aver cercato di abusare di lei. Nonostante gli apprezzamenti che ricevette per quel bassorilievo, Properzia de’ Rossi fu travolta da un vortice di maldicenze, quando in città iniziarono a circolare, in modo sempre più insistente, delle insinuazioni a proposito delle vicende che si nascondevano dietro alla formella.

In molti, infatti, non faticarono a riconoscere il profilo del Malvasia nelle sembianze discinte di Giuseppe e quelle dell’infelice scultrice nei tratti scomposti della bugiarda seduttrice. A quel punto, il quadro le fu pagato un prezzo ridicolo e non venne mai posto sulla facciata del Duomo. Dopo essere stata pubblicamente umiliata e screditata, a Properzia non restò altra scelta che ritirarsi dalla ribalta artistica, finendo i suoi giorni in solitudine e in miseria. 
Una vicenda, a tinte forti e dalla sceneggiatura teatrale, che oggi infiammerebbe il dibattito sui social: un’eroina romantica oppure un genio incompreso? Un’artista controcorrente o semplicemente una donna scostumata?

La storia riportata da Vasari, se non del tutto inventata, di sicuro fu alimentata dall’invidia di alcuni illustri colleghi di Properzia, uno su tutti Amico Aspertini: si trattava di scultori ricchi di fama e di mestiere, maschi abituati a godere dei loro secolari e indiscussi privilegi; quegli uomini erano indubbiamente poco disposti a misurarsi con una donna, dal talento indiscusso e dall’indole indomita, che aveva osato sfidarli a colpi di trapano e di scalpello…

Properzia pagò, dunque, a caro prezzo il suo essere “femmina” e, al tempo stesso, il suo voler essere “scultora”. In fondo, però, ci piace pensare che in quel bassorilievo Properzia de’ Rossi abbia davvero riversato qualcosa di se stessa, ritraendosi nelle forme della moglie di Putifarre: una donna coraggiosa, che non vuole scegliere tra i sentimenti e l’affermazione sociale, disposta a lottare per ciò in cui crede e per ciò che desidera, una femmina che non ha paura di mettere a nudo il suo corpo per affidare ai posteri la memoria della straordinaria artista che è stata.

Questo primo, non “dichiarato”, autoritratto al femminile apre la strada alle opere di tutte quelle artiste che, dal Rinascimento fino ai giorni nostri, hanno scelto di immortalare il loro volto per affermare la propria identità di donne e di pittrici o di scultrici, creando uno spazio – un quadro tutto per sé – in cui rappresentarsi come professioniste dell’arte, capaci di sfidare senza timore né sudditanza gli uomini del loro tempo.

SPUNTI DIDATTICI

UN QUADRO TUTTO PER SÉ

Si chieda ad alunne e alunni di fare una ricerca in rete e selezionare almeno altri due autoritratti di artiste che hanno scelto di rappresentarsi come professioniste dell’arte, poi far motivare la loro scelta.

CONFRONTARE E DIBATTERE

Far riflettere studentesse e studenti sull’affermazione: «Properzia pagò a caro prezzo il suo essere “femmina” e, al tempo stesso, il suo voler essere “scultora”». Dividere la classe in due gruppi e aprire un dibattito sul motivo per cui nel Cinquecento per una donna fosse molto più difficile, se non addirittura impossibile, essere un’artista.

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