Un colore prezioso, raro in natura, e per questo prodotto artificialmente fin dalla notte dei tempi. Un colore che invita a viaggiare dall’antico Egitto alla Cina della dinastia Han, fino ai laboratori chimici del Regno di Prussia. Perfetto per una lezione interdisciplinare, tra arte, geografia, storia e chimica
Forse non è un caso che il colore del cielo e del mare sia quello che più invita a viaggiare tra epoche e continenti. Blu di Prussia, egiziano, Han, Oltremare… basta leggere i nomi di alcuni dei blu più noti per volare attraverso i secoli, da un capo all’altro del pianeta. Il blu di Prussia è un colore tutto sommato giovane, la cui origine è nota. Ha un padre, una data e un luogo di nascita: il produttore di pigmenti Johann Jacob Diesbach lo creò intorno al 1705 a Berlino, da pochi anni capitale del Regno di Prussia. Si narra che Diesbach stesse lavorando con la cocciniglia per preparare una lacca quando, a causa di un errore nell’aggiunta di elementi minerali, anziché il rosso sotto i suoi occhi si materializzò una tonalità di blu. A ben vedere, questo blu ha una sfumatura vivace, violetta, che sembra omaggiare la sua discendenza dal rosso.
Ottenuto da sale ferrico e ferrocianuro potassio, il blu di Prussia è considerato in assoluto il primo pigmento “moderno”, frutto di una sintesi chimica, riproducibile sempre uguale a se stesso in laboratorio. Inutile dire che ha avuto un rapido e travolgente successo. Qualcuno lo chiama “azzurro di Berlino”, nome meno marziale e più simpatico, ma forse in questo giudizio siamo condizionati dall’ultimo trionfo calcistico nazionale, al Mondiale tedesco del 2006.
Il blu di Prussia fu il capofila di una nuova generazione blu, perché sulla scia di Diesbach, nell’Ottocento un altro tedesco, Andreas Höpfner, e un francese, Louis Jacques Thénard, misero a punto due diversi pigmenti di sintesi usando il cobalto. Furono chiamati rispettivamente ceruleo, o azzurro cielo, e blu cobalto.
Per trovare il primo di tutti i blu bisogna però risalire molto indietro nel tempo, fino al blu egiziano, il blu dell’occhio di Ra, usato già cinquemila anni fa dagli Egizi e dai popoli mesopotamici, e poi dai Minoici a Creta. E dai Greci e dai Romani, tanto da essere noto anche come blu pompeiano. Se il blu di Prussia è stato il primo pigmento di sintesi chimica, il blu egiziano fu il primo, tra tutti i colori, a non essere ricavato direttamente dalla natura: lo si otteneva mescolando diverse materie, con una lavorazione in più fasi.
La ricetta originaria è andata perduta nei secoli ma, secondo le analisi chimico-fisiche cui sono stati sottoposti smalti, vasi, pareti tombali, sarcofagi e papiri, lo si preparava riscaldando una miscela di rame, calce, sabbie silicee e natron, un carbonato di sodio naturalmente presente nei fondali dei laghi prosciugati. Contenendo rame, questo blu può avere una sfumatura verde. È perfetto per la vetrificazione come per la pittura ad affresco, ma non per la tintura di stoffe.
A quello egiziano assomiglia moltissimo un blu nato in Cina, il blu Han, usato soprattutto sotto l’omonima dinastia (206 a.C.-220 d.C.), ma noto ai cinesi già secoli prima. Nasce anch’esso dal rame, ci si decoravano soprattutto vasi, vetri, metalli e muri. La somiglianza con il blu egiziano probabilmente non è una coincidenza, perché già ai tempi dei faraoni carovane di mercanti collegavano l’Asia orientale al delta del Nilo e al Mediterraneo, trasportando anche pigmenti.
I cinesi riuscirono a ricreare quel blu proveniente da lontano sostituendo il natron e le sabbie ricche di calcio, poco comuni nelle loro terre, con la barite. Variazione non trascurabile, perché produrre il blu senza usare il natron servono temperature più alte (se il calore non è sufficiente, anziché il blu si ottiene il… viola Han). La Via della Seta ha origini antichissime, e in qualche modo da lì cominciò la globalizzazione.
Per la sua natura e i suoi metodi di produzione, il blu degli Egizi mescola per millenni la sua storia a quella dei vetri e delle ceramiche invetriate in tutta l’area mediterranea e mediorientale: dalle mattonelle della Porta di Ishtar alle tessere vitree dei mosaici bizantini di Ravenna, il blu nasce sempre dalla fusione di sabbie siliceo-calcaree e composti di rame, in entrambi i casi con l’aggiunta di minerali contenenti cobalto così da rendere il colore più intenso, meno “verde”, anticipando di oltre duemila anni l’intuizione di Louis Jacques Thénard.
Insomma, a differenza degli altri pigmenti tutti questi blu – antichi e moderni – sono il frutto dell’ingegno umano e non dello sfruttamento diretto di elementi naturali. Non è un caso: il pianeta è generosissimo di paesaggi azzurri ma non di pigmenti dello stesso colore. In verità un minerale blu relativamente diffuso c’è, ed è l’azzurrite, un carbonato di rame che può dare molte sfumature di azzurro: ma già gli Egizi sapevano che è poco stabile, vira al verde e tende a polverizzarsi, soprattutto se usata per le pitture su muro. Perciò preferivano usare l’azzurrite indirettamente, impiegandola nella produzione di blu egiziano. Ben più stabile è la lazurite, che però è anche assai più rara. In natura si trova dentro i lapislazzuli, e gli unici giacimenti noti fin dall’antichità si trovano in Afghanistan.
Poiché veniva da terre misteriose, di là dal mare, in Europa il blu di lazurite divenne famoso come blu Oltremare. Rarissimo, costosissimo, e per giunta difficile da purificare, era usato con estrema parsimonia sia nell’antichità, sia nel Medioevo e nel Rinascimento, ma la sua sola presenza testimoniava la ricchezza dei committenti. Non a caso lo stendardo di Ur, il cui sfondo blu è costituito da inserti di lapislazzuli alternati a pietra calcarea bluastra, si trovava in una necropoli reale. E l’intento di chi progettò la decorazione della Porta di Ishtar era quello di simulare uno sfondo come questo, in preziosi lapislazzuli, tanto che a lungo si è creduto che quelle mattonelle di ceramica invetriate contenessero autentica polvere di lazurite.
Possiamo solo immaginare l’effetto dirompente che ebbe, agli inizi del Trecento, la cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto con una profusione di blu Oltremare, non solo nei manti dei personaggi ma anche negli sfondi delle scene e perfino nella volta. Un’ostentazione di sfarzo, praticamente uno status symbol per la famiglia Scrovegni. Quel pigmento costava come l’oro, e come il metallo più prezioso acquisì valenze iconologiche particolari, divenendo simbolo di purezza celestiale, usato per il manto della Vergine.
In alternativa si poteva contare solo sul guado, colorante in uso dal XII-XIII secolo, ottenuto da una pianta, la Isatis tinctoria, e cromaticamente simile all’indaco, che in seguito lo avrebbe sostituito. Usato soprattutto per la tintura di stoffe e arazzi, come nel celebre ciclo della Cattura dell’unicorno, trovò comunque ampio impiego anche in pittura. L’estrazione di questo blu richiedeva un processo lungo, impegnativo, e complice la grande richiesta ben presto diventò costoso anch’esso, tanto da fare la fortuna delle regioni in cui era coltivato. In Italia, per esempio, l’Umbria e le Marche settentrionali: qui, agli inizi del Quattrocento, lo commerciava anche il ricco mercante Benedetto de’ Franceschi, padre di Piero meglio noto come Piero della Francesca.
Perfino Piero, però, nei suoi affreschi finì con l’usare azzurrite e blu Oltremare, come ha dimostrato il restauro della Madonna del Parto, il cui manto in passato si riteneva dipinto con il guado. Forse il maestro di Sansepolcro sapeva che la pittura murale non va molto d’accordo con quel blu di origine vegetale, ma soprattutto intendeva omaggiare la Vergine con pigmenti più preziosi, come del resto fa anche nella pittura su tavola, nel Polittico della Misericordia.
Per porre fine all’epoca dei blu ricchi e preziosi, vera aristocrazia del regno dei colori, bisognava aspettare i tempi di Diesbach, Höpfner e Thénard, alfieri di una rivoluzione democratica che culminò, attorno al 1830, con l’inizio della produzione artificiale dello stesso blu Oltremare.
Fu grazie alle invenzioni di questi uomini, e grazie alla chimica che abbatté i costi e moltiplicò l’offerta di pigmenti color cielo, che gli impressionisti crearono le loro luminose variazioni di azzurro. Che Van Gogh poté permettersi di dipingere la sinfonia blu della notte stellata (alternando pennellate intense di Oltremare artificiale per il cielo scuro, di blu cobalto, più chiaro, attorno alle stelle, e qualche tocco di blu di Prussia nei cipressi in primo piano).
E chissà quale colore dominante avrebbe scelto, il Picasso che all’alba del Novecento vagava malinconico tra i locali notturni di Parigi, se non avesse avuto a disposizione il blu di Prussia.