Liu Bolin, Bocconi University, Mlano, 2019.
Courtesy of Boxart, Verona.
Io è un altro: lo scrisse, già nel 1871, Arthur Rimbaud nella sua Lettera del veggente: la nostra identità è aperta a infinite possibili trasformazioni, indotte dalla nostra sensibilità e dalle condizioni in cui viviamo.
Possiamo assecondare il cambiamento, con o senza limiti. Un tema cui gli artisti dalle avanguardie storiche ai nostri giorni hanno continuato a fare riferimento, sperimentandolo attraverso le loro opere in cui il loro volto e il loro corpo diventano oggetto di travestimenti, camuffamenti, sdoppiamenti di identità, sia in senso ironico che critico. Maestro di tutti è Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968) che si trasforma nella enigmatica Rrose Sélavy (l’opera è visibile a questo link) : il nome e il cognome di questo alter-ego femminile dell’artista rimanda a un detto francese: Rose c’est la vie (“La vita è rosa”), mentre la trasformazione operata dall’artista su di sé potrebbe essere definita un “ready made dell’identità”, in pieno spirito dadaista e concettuale, volto a scardinare tutti i parametri di lettura dell’immagine. Molti altri artisti hanno giocato a travestirsi: dall’italiano Luigi Ontani (Vergato, 1943), personalità eclettica che a partire dagli anni Settanta, nel pieno affermarsi della Body e della Performance Art, avvia il progetto dei Tableaux Vivants dove si traveste come i soggetti sacri e profani dipinti dai grandi artisti del passato, da Guido Reni a Tintoretto. Ontani diventa così San Sebastiano, l’Ecce Homo (visibile a questo link), ma si traveste anche da Dante Alighieri; in tempi più recenti usa maschere di origine orientale e si trasforma in un misterioso feticcio di un rituale segreto.
In tempi più recenti, il trasformismo si è unito alla riflessione sul tema della manipolazione del corpo dalla chirurgia estetica e dalla medicina genetica.Sono spesso le artiste donne a lavorare su questi temi. Orlan è un’artista francese (Saint-Étienne, 1947) che negli anni Settanta si era cimentata in performance femministe, dove offriva baci in cambio di danaro rifletteva sulla mercificazione del corpo femminile; negli ultimi decenni è diventata una temeraria della sala di chirurgia estetica, subendo operazioni che ha debitamente filmato e mostrato al pubblico, nelle quali ha chiesto ai medici di modificare il suo viso selezionando le parti migliori delle icone del passato, dalla Gioconda di Leonardo alla Venere di Botticelli. Un gesto estremo, non privo di dolorose conseguenze fisiche, che l’artista fa per far riflettere sui parametri estetici e sulla loro relatività.
Anche la giapponese Mariko Mori (Tokio, 1967) nelle performance degli anni Novanta ha interpretato i ruoli di una geisha post-tecnologica, di una sirena di plastica, di una giovane eroina dei manga, per mostrare le diverse facce di un’iconografia femminile orientale che risponde ai desideri della società maschilista.
La fotografa e regista americana Cindy Sherman (Glen Ridge, 1954) ha fatto del trasformismo e del camuffamento la base della sua opera: nel corso del tempo si è truccata interpretando le centinaia di protagoniste dei più noti film moderni e contemporanei, riflettendo sui condizionamenti e i luoghi comuni sulle attrici donne nell’industria cinematografica; ha interpretato i soggetti femminili delle grandi opere d’arte, dalla Venere a Giuditta; ha messo in scena le manie e i parametri della bellezza femminile americani; ha creato terribili teatri di corpi mutilati, per stimolare il dibattito sul tema della violenza sulle donne. Il suo mondo, affascinante e spaventoso, è un pugno allo stomaco e non lascia tregua allo sguardo.
Diversi invece i camuffamenti del giapponese Yasumasa Morimura (Osaka, 1951) e del cinese Liu Bolin (Shandhong, 1973): il primo è letteralmente ossessionato dal confronto con i più famosi artisti occidentali del passato, dei quali riproduce le opere più famose, dall’autoritratto di Van Gogh all’Olympia di Manet in set ricercatissimi e minuziosi dove si ritrae truccato come i protagonisti di questi dipinti.
Il secondo si camuffa negli ambienti o davanti alle grandi opere d’arte, diventando letteralmente mimetico con essi, un camaleonte difficile da scovare nelle sue fotografie di grande formato.
Morimura così facendo riflette sulla forza espansiva della cultura occidentale nel suo Paese; Bolin invece sul pericolo di perdita dell’identità delle cose nel mondo globalizzato, ma anche sul ruolo dell’artista quale creatore e sull’autenticità dell’opera: emi scottanti oggi, nel mondo del digitale e del virtuale.
Per approfondire
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Ilaria Bignotti è una degli specialisti che hanno collaborato al corso di Storia dell’arte del professor Ernesto L. Francalanci.
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