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L'arazzo

L'arazzo

Caratteristica fondamentale di quest’opera di Velázquez è la rappresentazione del movimento come elemento costitutivo della narrazione: i raggi della ruota dell’arcolaio, come si può notare nel dettaglio ingrandito, non vengono disegnati, come se una macchina fotografica avesse sbagliato il tempo di posa, e, dalla parte opposta un filo di lana vibra instabile sotto le dita moltiplicate di una fanciulla. È in scena, come vedremo, il tema politico del lavoro.

L’opera è stata intitolata fino alla metà del Novecento La fabbrica di arazzi di Santa Isabella in Madrid. Un altro titolo, doppio, Le filatrici. La favola di Aracne, verrà assegnato a posteriori, in seguito alla supposta identificazione di alcune figure con Atena e con Aracne, protagoniste della favola mitologica cantata da Ovidio ne Le metamorfosi, in cui si rievoca la sfida di bravura nel tessere tra le due protagoniste. Le interpretazioni più tradizionali dell’opera indicano le figure in primo piano, intente a lavorare il filo di lana, come le tre Parche, le greche Moire (le sorti). Il loro compito era, infatti, quello di tessere il filo della vita di ogni essere umano e infine di reciderlo, ritenendo giunto il momento della sua morte. Nel dipinto la figura femminile, al centro, quella Atropo che dovrebbe decidere della sorte umana, non può corrispondere alle caratteristiche che il mito tramanda, facendo cadere definitivamente tale interpretazione. Per altri studiosi la donna più anziana, a sinistra, sarebbe Atena, mentre nella giovane, sulla destra, intenta a raggomitolare la lana, si adombrerebbe la sfortunata Aracne. Se la figura della anziana potrebbe corrispondere alle caratteristiche descritte nel poema (« vecchia si finge Pallade, di falsa canizie spruzza le tempie»), per la giovane, intenta ad arrotolare il filo di lana, non può dirsi altrettanto, del tutto indifferente a ciò che si svolge attorno a lei.

Diego Velázquez, Le filatrici (La favola di Aracne), 1657 ca. Olio su tela, 167×252 cm.
Museo del Prado, Madrid. 

Secondo un’altra interpretazione ancora, ugualmente in riferimento al poema ovidiano, la fanciulla che sbuca dalla tenda sarebbe Aracne; si sta rivolgendo «con sciocche parole» alla donna anziana che sta filando, lamentandosi che Atena non si sia ancora fatta vedere per iniziare la gara. Non si accorge che essa è proprio la dea travestita. Nel poema ovidiano il racconto continua con la vecchia che rivela il lavoro già eseguito, il suo arazzo bellissimo, che noi vediamo tuttavia relegato in un lontano secondo piano. Ovidio ricorda l’ammonimento divino: «Ascolta il mio consiglio: aspira pure ad essere la migliore fra i mortali nel tessere la lana, ma inchinati a una dea, e di ciò che con arroganza hai detto chiedi in ginocchio venia: se l’invochi, non ti negherà il perdono». Nel dipinto, tuttavia, le due figure non sono atteggiate ad un dialogo di tale intensità. Il racconto e la sua rappresentazione divergono totalmente e tutta l’eventuale trasposizione pittorica del poema va ricercata altrove, lasciando l’intero primo piano al suo destino.

Vediamo dunque di rianalizzare la composizione del dipinto. Esso è diviso in un primo ed un secondo piano, una distinzione che è una peculiarità della pittura del Seicento, soprattutto nordica, e frequente in Vermeer come in Rembrandt. La funzione è, come in questo caso, quella di sovvertire l’ordine di lettura, collocando gli attori principali sullo sfondo. In questo modo l’artista riesce ad alterare la logica narrativa introducendo un motivo a sorpresa: il racconto ovidiano è infatti rappresentato da Velázquez nello spazio scenico più lontano.

L’arazzo realizzato dalla sfidante sul tema del rapimento di Europa da parte di Giove («disegna Europa ingannata dal fantasma di un toro, e diresti che è vero il toro, vero il mare») compare infatti sullo sfondo. È dunque solo qui – su questa sorta di palcoscenico – che è possibile individuare il corretto riferimento al racconto ovidiano. Atena è la figura femminile, un’attrice in abiti classici, che sta rimproverando la rivale, al centro della scena, con il braccio abbassato in segno di resa.

Tre dame sono intente a seguire l’incontro: la prima, a sinistra, con la mano appoggiata su uno strumento musicale, ha il capo chino in segno di ascolto, mentre una delle due giovani donne sul lato apposto osserva le filatrici che stanno lavorando in primo piano e, nello stesso tempo, coinvolgendo con lo sguardo lo spettatore nella macchina compositiva.

Il grande arazzo che stiamo vedendo contiene un segreto che capovolge ogni precedente interpretazione del dipinto: esso riproduce, in realtà, un quadro realizzato un secolo prima da Tiziano, Il ratto di Europa (1560-1562), un dipinto visto da Velázquez, assieme a Rubens, all’Escorial di Madrid.

Tiziano, Ratto di Europa, 1560-1562. Olio su tela, 178×205 cm.
Isabella Stewart-Gardner Museum, Boston.

Possiamo sollevare un’ipotesi: l’artista sembra quasi voler testimoniare in quest’opera volutamente criptica la differenza tra l’economia spagnola e quella del resto d’Europa, in cui, in molti Stati del Nord e in particolare in Inghilterra, la forza trainante del rinnovamento stava derivando, alla metà del secolo, soprattutto dal commercio della lana. Il tema fondamentale del dipinto dovrebbe, a questo punto, balzare agli occhi: si tratta di una sfida, ma di tutt’altra natura rispetto a quella evocata dal mito e dal poema. Una sfida tra il tema del lavoro, in primo piano, e la dimensione estetica dell’arte, sullo sfondo: un confronto “politico” tra il lavoro quotidiano, la piccola catena di montaggio dal grezzo alla cardatura alla filatura, che si fa metafora di un’economia ormai di sussistenza, e il lavoro intellettuale e artistico che si svolge in un mondo distaccato e sollevato dalla misera terra delle fatiche e quasi totalmente consegnato all’aura del mito e della citazione.

Da una parte il mondo della perenne fatica (la scena è ambientata in un povero interno a malapena rischiarato dalla luce che illumina solo le due figure di destra e sfiora i fiocchi di lana abbandonati a terra accanto ad un gatto che sonnecchia, mentre una porta si apre sull’oscurità). Dall’altra, la macchina teatrale su cui si proiettano da sinistra raggi di invisibili riflettori. Una linea concettuale unisce il primo piano e l’ultimo: il vello (l’informe) viene districato nella cardatura e nella pettinatura (la messa in ordine) e, raccolto nella matassa, nel gomitolo e nei fusi, si trasforma in filo che diventa ordito e trama a realizzare il tessuto, forma finale di un processo di metamorfosi del lavoro manuale in lavoro artistico, compiuto da altri.

Qual è dunque il motivo che collega l’opera al suo tema, la Fabbrica di arazzi di Santa Isabella in Madrid, se non il simbolo più emblematico del lavoro ininterrotto e della fatica della povertà, ovvero l’uso del tempo come durata, così diverso ed opposto a quello assoluto dell’arte.

È del diverso fare, infatti, che parla l’opera, del lavoro materiale e di quello ideale, di quello manuale e di quello concettuale.
È dunque un dipinto dedicato al lavoro umano, proletario e femminile, e a quello dell’arte. E al tempo di quel diverso agire: nella scena teatrale dello sfondo i gesti delle due protagoniste sono segni espressivi, la posizione delle figuranti è premeditata; nella stanza della filatura tutte le figure sono in movimento, agitate da funzioni diverse.

Tutti questi movimenti producono suono, musica del lavoro, che si somma al cicaleccio delle due figure di sinistra che sembrano evocare un momento di filò, in contrapposizione al silenzio cristallizzato nel fermo immagine della scena teatrale.

Il professor Ernesto L. Francalanci è l’autore del corso dell’Arte

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