Il segreto del rosso

Il segreto del rosso

Colore caldo, caldissimo, che istintivamente colleghiamo al fuoco, alla passione e alla vita, nella storia dell’arte il rosso si presenta in mille sfumature, assumendo significati diversi, talvolta tra loro opposti. Rossa è la veste dei cardinali e rosso il manto dei re, simboli di potere e ricchezza. Ma rosse sono anche le vesti dei martiri e la bandiera del socialismo, a evocare il sangue versato in nome di tutte le fedi…

Forse il rosso, di per sé, non esiste. È tutto e nulla, se al sostantivo non si accompagna almeno un aggettivo, un complemento di specificazione, che come una bussola possa guidarci tra le innumerevoli declinazioni di questo colore. Porpora, carminio, vermiglione, mattone, di cadmio, di robbia, di cromo e antimonio…

In principio fu la terra. L’ocra rossa, per la precisione, ricca di ematite, un ossido di ferro che già dal nome (in greco significa “sanguigna”) evoca il sangue e il suo colore. La si usava per le pitture rupestri e gli artisti avrebbero poi continuato a impiegarla per millenni, soprattutto negli affreschi, ma anche nella pittura a olio e a tempera, grazie al suo forte potere coprente. Ma già nella preistoria l’uomo sapeva ricavare dalla natura altre sfumature di rosso. Per esempio il kermes o vermiglione, estratto da alcune varietà di Kermes (tra cui il Kermes vermilio), un insetto, parassita delle querce, che contiene acido carminico. Poco intenso e piuttosto instabile, tanto che Cennino Cennini invitava a non usarlo, questo colore lega il suo nome a un liquore, l’alchermes (che, in realtà, oggi è colorato artificialmente). Dal nome kermes deriva il nome “cremisi”, che indica una tonalità di rosso vivace tendente al porpora.

Pitture rupestri della Grotta di Altamura, in Spagna, risalenti a 14-18 000 anni fa.

Inoltre, in Turchia già nel VII millennio a.C. si impiegava il cinabro: un rosso dai toni aranciato-purpurei, ricavato a lungo dalle miniere di solfuro di mercurio (un prodotto secondario delle attività vulcaniche). In uso in Cina dalla metà del II millennio a.C. e fino ai giorni nostri, dai Romani passò agli Arabi, ai quali si deve probabilmente la scoperta del metodo per ottenerlo artificialmente, sintetizzando zolfo e mercurio (in questo caso, il cinabro prende anche il nome di vermiglione minerale). Approdò poi negli scrittoi degli amanuensi medievali e da lì alle botteghe dei pittori rinascimentali. Segni particolari: il cinabro con il tempo vira su tonalità più scure. E, incidentalmente, è tossico per l’uomo, proprio come il suo pigmento “fratello”, il realgar (solfuro di arsenico), ancor più instabile. I Romani, che lo sapevano, affidavano l’estrazione del cinabro a schiavi e detenuti, condannandoli di fatto a morte certa.

Meester van Catharina van Kleef, pagina miniata, 1440 ca.

A proposito di Romani, meriterebbe un discorso a parte il celebre rosso pompeiano, che in realtà andrebbe declinato al plurale. Nelle case di Ercolano e Pompei si trovano almeno tre tipi di rosso: uno è costituito dall’ocra rossa, uno fu ottenuto arrostendo volutamente ocra gialla, in modo da renderla più scura, e uno che, in realtà, originariamente era giallo, e virò in rosso solo a causa delle condizioni fisico-chimiche causate dall’eruzione del Vesuvio. Nel 2011, infatti, una ricerca dell’Istituto nazionale di Ottica del CNR ha dimostrato che, se attualmente sono ben 246 le pareti valutate rosse contro 57 gialle, in origine le pareti davvero rosse erano “solo” 165, contro 138 gialle.

Affreschi nella Sala del Triclinio di Villa dei Misteri a Pompei, 60 a.c. circa.

Plinio il Vecchio, che proprio di quell’eruzione fu vittima, spiega che i romani distinguevano i rossi, come tutti i colori, tra floridi (cioè ricchi e costosi) e austeri (più sobri ed economici). Tra gli austeri c’erano i rossi ottenuti dalle terre; tra i floridi il cinabro, il sangue di drago (una resina poco stabile e perciò mai molto usata in pittura, ottenuta da varie specie di piante, tra cui le dracene) e soprattutto il purpurissum, la porpora, ricavata fissando su creta il pigmento estratto da molluschi marini della famiglia dei Muricidi. Se oggi con il nome “rosso porpora” si indica un rosso scuro, in origine esistevano numerose sfumature di porpora, dall’aranciato al violetto, secondo l’intensità delle secrezioni dei molluschi e il trattamento cui esse venivano sottoposte. “Scoperta” dai Fenici, la porpora era rara e preziosissima: valeva almeno 10 volte il suo peso in oro. La si usava soprattutto per la tintura di stoffe che divenivano inevitabilmente molto costose, tanto da trasformarsi in status symbol. Le vesti porpora divennero appannaggio della classe sacerdotale e dei senatori romani, dei re e poi dei cardinali, i “porporati” per antonomasia. Alla corte bizantina, dove tutto era codificato secondo il rango, solo l’imperatore e sua moglie potevano vestire abiti interamente color porpora.

Foglio VII del Codex Rossanensis, conservato Museo diocesano e del Codex, Rossano.

Pochissimi manoscritti miniati medievali vedono impiegato il rosso porpora: si suppone che fossero privilegio dei sovrani. Il rosso, così, si legò simbolicamente non più solo al fuoco e al sangue, e dunque alla vitalità, ma anche all’autorità regale e a una dimensione divina. Il Cristianesimo sovrappose tra loro questi due significati simbolici e identificò nel rosso il colore dei martiri, figure che hanno versato il loro sangue per la fede, conquistandosi così una “nobiltà” divina. Molti secoli più tardi, i movimenti socialisti avrebbero adottato come loro emblema la bandiera rossa per abbattere re e imperatori, richiamandosi al sangue versato da altri “martiri”: i lavoratori oppressi e i caduti delle rivoluzioni proletarie.

Plinio non lo racconta, ma analisi chimiche dimostrano che a volte il purpurissum, assai costoso, veniva “allungato” con rossi di origine vegetale, come il rosso di robbia o di garanza. Accadeva regolarmente a Pozzuoli, dove si trovavano i laboratori che fornivano i colori a pittori e artigiani attivi a Pompei ed Ercolano. La preparazione di questo rosso, che gli inglesi chiamano “madder red” o “madder carmine”, è molto più semplice ed economica e il risultato è particolarmente stabile. Lo si ricava dalle radici della robbia, una pianta il cuinome scientifico è Rubia tinctorum (dal latino ruber, rosso). La robbia, infatti, contiene alizarina, un colorante da sempre sfruttato sia per tingere stoffe sia per dipingere, con risultati che dal rosa-violetto possono arrivare quasi all’arancione: se ne trovano testimonianze presso tutte le grandi civiltà mediorientali e mediterranee, prima tra gli Egizi e i Sumeri, e poi tra i Romani e gli Arabi. A definire il tono esatto di questo rosso sono da un lato è la mineralità del terreno sul quale la pianta cresce, dall’altro il supporto al quale si decide di fissare il colore estratto.

Robbia rosa.
Robbia rossa.

Studiando i maestri del Cinquecento e del Seicento, ci si rende conto che i “pilastri” del rosso impiegati in quest’epoca d’oro della pittura sono gli stessi della tradizione antica. Alternati o combinati tra loro, abilmente sovrapposti con velature più o meno sottili, i rossi “preistorici” e d’età romana continuano attraverso i secoli a regalare effetti straordinari. La novità più grande, in questa stagione, è forse l’introduzione del carminio, che potremmo definire un “vermiglione potenziato”. A fine ’500, al tempo della colonizzazione del Nuovo Mondo, in Europa arriva infatti un altro insetto che contiene acido carminico, come il Kermes vermilio: è la cocciniglia, che gli Aztechi usavano da secoli per estrarre il rosso. Mentre nel Kermes c’è solo l’1% di acido carminico, nella cocciniglia messicana questo principio colorante può superare il 20%, e il rosso che se ne ricava risulta dunque molto più intenso del vermiglione. Caldo e scuro, il carminio era un colore d’avanguardia a fine ’500, alla moda e molto costoso. Tuttavia, come il suo “fratello minore”, risultava poco stabile. È dunque combinando rossi provenienti da tre regni naturali diversi (minerale per il cinabro e l’ocra, vegetale per la robbia, animale per il vermiglione e per il carminio) che, come veri alchimisti, maestri quali Tiziano e Vermeer, Van Dyck e Rembrandt danno vita ai loro rossi straordinari

Carminio.
Cinabro.
Tiziano, Noli me tangere, 1511. Olio su tela, 109×91 cm.
National Gallery, Londra (pubblico dominio).

Tiziano, che pure passerà alla storia per un “rosso” che in realtà è un dorato arancione, ottenuto prevalentemente da ocre, quando si confronta con i rossi intensi di solito stende campiture di kermes che poi vela con il rosso di robbia, utile per rendere più stabile il colore: come nel Noli me tangere. Ma negli anni Tiziano più avanzati usa anche il carminio di cocciniglia. Venezia, grande città di mercanti, nel Cinquecento offre ai suoi pittori una vastissima scelta di pigmenti provenienti da tutto il mondo. Già all’inizio del secolo il maestro di Tiziano, Giorgione, usava combinare rossi diversi nello stesso dipinto: nella Pala di Castelfranco, il rosso della quinta che chiude la scena è un misto di cinabro, nero carbone e minio (o rosso di piombo, un pigmento minerale tendente all’aranciato dagli effetti più “densi” rispetto al cinabro), mentre il manto della Vergine è ottenuto con una lacca rossa probabilmente a base di kermes.

Uno dei grandi successori di Tiziano, Paolo Veronese, nella sua esaltazione del lusso e della gioia di vivere si rivela un grande interprete del rosso più alla moda, quello di cocciniglia, esaltandone la preziosità come si vede nella serie dell’Allegoria dell’Amore.

Paolo Veronese, Allegoria dell’Amore I: infedeltà, 1570 ca. Affresco, 189,9×189,9 cm.
National Gallery, Londra (pubblico dominio).

Nel Seicento i Paesi Bassi delle grandi compagnie di navigatori non sono da meno, e si spiega anche così il successo della pittura olandese. Vermeer in genere stende prima una campitura di cinabro e poi sovrappone un velo di lacca di rosso di robbia, come si vede nei Due gentiluomini e una fanciulla con bicchiere di vino: con il doppio risultato di proteggere il pigmento più delicato dal contatto con l’atmosfera, mantenendolo stabile, e di rendere il colore più “profondo” e vario. Anzi, risultato triplice, perché così l’artista ha un risparmio economico: non va mai sottovalutato il prosaico vantaggio dato dall’uso del rosso di robbia. Anche nella Fanciulla con il cappello rosso, che qualcuno ha definito “un falso ben riuscito” e qualcun altro continua invece ad attribuire a Vermeer, la tecnica è la stessa: ma l’artista, chiunque fosse, qui ha giocato aggiungendo pigmento nero al cinabro, per evidenziare le ombre.

Jan Vermeer, Due gentiluomini e una fanciulla con bicchiere di vino, 1659-1660. Olio su tela, 77,5×67 cm. Herzog Anton Ulrich Museum, Brunswick (pubblico dominio).

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Antoon Van Dyck, Ritratto dei bambini Balbi, 1625-27. Olio su tela, 219x51cm. National Gallery, Londra (pubblico dominio).

Van Dyck è tra i primi a creare sinfonie rosse sovrapponendo il carminio di cocciniglia a campiture di cinabro. Lo fa nell’abito del bimbo in secondo piano nel Ritratto dei bambini Balbi, ed è evidente la differenza rispetto al rosso di solo cinabro usato per il bimbo in primo piano.

E sovrapporrà cinabro e carminio di cocciniglia anche Rembrandt quando dipingerà l’abito della sua Sposa ebrea: preziosissimo anche nei pigmenti, come si conviene a un matrimonio.

Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, La sposa ebrea (Isacco e Rebecca), 1666. Olio su tela, 121,5×166,5 cm. Rijksmuseum, Amsterdam (pubblico dominio).

Nell’Ottocento, i progressi della chimica e l’industrializzazione rendono più semplice la produzione di colori di sintesi: allora non ci si limita a isolare e produrre in laboratorio pigmenti identici all’alizarina (il colorante contenuto nella robbia), alla porpora e alla cocciniglia, ma si sperimentano rossi che non abbiano i difetti di quelli naturali. Tuttavia, fra i colori, il rosso è quello che rimane più legato ai pigmenti della tradizione: nella tavolozza degli impressionisti, per esempio, troviamo ancora vermiglione minerale, lacche di cocciniglia e rosso di robbia, mentre per i blu e i gialli questi artisti non esitano a adottare le novità prodotte dall’industria chimica.

Per un uso intenso dei nuovi colori bisogna attendere HenriMatisse, che impiega abbondantemente il rosso di cadmio, nato come “sosia” del vermiglione ma molto più stabilee coprente: adatto alla pittura a cavalletto (ma non all’affresco), può essere declinato in più sfumature (chiaro, scuro e Bordeaux).

Henri Matisse, L’Atelier rosso, 1911. Colore ad olio, 162×219 cm. The Museum of Modern Art, New York City (pubblico dominio).
Paul Gauguin, Ritratto di Marie Lagadu, 1890. Olio su tela, 65x55cm. Art Institute of Chicago, Chicago (pubblico dominio).

Grande sperimentatore cromatico è anche Paul Gauguin che usa precocemente il magenta, brevettato dal chimico francese François-Emmanuel Verguin nel 1860: un colore trasparente e brillante, di buona stabilità e impiegabile anche nell’affresco. Poi il magenta diverrà uno dei colori principali delle ricerche della Psychedelic Art degli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, nonché uno degli inchiostri nella stampa a quattro colori, insieme con ciano, giallo e nero.

Quasi uguale al magenta per la sua sfumatura cromatica, ma di diversa origine chimica (si tratta di un pigmento organico azotato), è la litolrubina o Lithol, sintetizzata nel XX secolo: la usa anche Mark Rothko, in cerca di effetti inediti, nei suoi dipinti per il Seagram Building di New York e per Harvard (tra il 1959 e il 1962). Purtroppo queste opere si sono scolorite, proprio a causa dell’instabilità della litolrubina: un rischio che è sempre in agguato, quando si sperimentano nuovi colori e nuove tecniche.

Osserva nella galleria anche le opere di Giorgione, Jan Vermeer e Pierre-Auguste Renoir…

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